Se c’è una scelta che ho fatto chiaramente sin dal primo giorno in cui ho aperto il mio laboratorio, è stata quella fare solo le cose che mi va di fare. Dedicarmi al lento e minuzioso processo che porta alla nascita della frutta martorana è una di queste cose: l’autunno in generale e questi giorni di festa in particolare sono infatti tra le più belle ed evocative occasioni di riportare sui nostri scaffali i grandi dolci della tradizione.
In questo caso usiamo le nostre mani per riprodurre un rituale che ha secoli di storia.
Secondo la leggenda, infatti, l’uso della pasta di mandorla modellata e colorata a forma di frutta fu inventata nel Monastero della Martorana a Palermo, dove una volta la madre superiora ordinò alle sue suore di prepararla e appenderla agli alberi del chiostro in onore della visita dell’arcivescovo.
Col tempo è diventata una tradizione della festa dei Morti, quando gli spiriti degli avi tornano per portare ai bambini siciliani dei cestini colmi di frutta martorana, noci e melagrane.
Ne scrive Antonino Uccello in “Pani e dolci di Sicilia”, ricordando i fruttini tra i dolci “dei Morti”: “È pasta reale che si confeziona con mandorla sbucciata, raffinata con zucchero, essenza di limone, vaniglia e poi date le forme a ogni frutto“. Ma ne cita un uso ancor più antico: “Sappiamo fra l’altro che in occasione del banchetto che si tenne nel 1308 in onore di papa Clemente V, sulla tavola vennero portati due alberi carichi di frutta diversa, fichi, mele, pere, uva, pesche, prodotti di pasticceria-panetteria“.
E non è un caso, questa forma: conoscete in natura qualcosa di più dolce della frutta?
È sempre dalla tradizione conventuale che proviene la preziosa ricetta con cui anch’io, ancor oggi, preparo la frutta martorana: si sbollentano e pelano a mano le mandorle, macinandole poi insieme allo zucchero. Prima di modellare i frutti, con o senza formelle, è però necessario non trascurare un rigoroso segreto: aggiungere un po’ di mandorle amare. Dopo un riposo di due giorni, il rito si conclude colorandoli a mano, uno ad uno, con coloranti naturali.
Per immaginare quanto da sempre sia stata meticolosa la loro preparazione, affinché ogni fruttino fosse più simile possibile al frutto reale, pensate che già nell’800 si usava una mano di benzoino per renderli più lucidi. Scrive Maria Grammatico nel suo “Mandorle amare”: “Il benzoino è una resina che proviene da Giava; fu portato in Occidente nel XIV secolo da un viaggiatore arabo che lo chiamò ‘Incenso di Giava’.
I pezzetti rassomigliano alla resina del violinista, e vengono pestati a polvere e poi sciolti in alcol puro“. Ora non ci resta che assaggiarli o, ancor meglio, conservarli in un contenitore, ben protetti, e mangiarne un boccone alla volta per addolcirci tutto l’inverno.